XXXI DOMENICA  DEL  TEMPO ORDINARIO

Sap 11,22-12,2; Sal 144; 2 Tess 1,11-2,2; Lc 19,1-10

Io sono venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto

Anche oggi, come altre volte, dovremmo dire che a questo Vangelo manca solo la voce, perché ci darebbe un conforto potente ascoltare come allora il Signore, e  particolarmente la gioia che vibrò nella sua voce mentre Egli diceva “Io sono venuto a cercare e a salvare”. Capiremmo molto meglio chi era e chi continua a essere Gesù.

Di Dio si possono avere innumerevoli opinioni, alcune giuste, alcune difettose, alcune sbagliate. Ma qui siamo davanti al Dio della rivelazione, un Dio che non possiamo pensare se non davanti all’uomo perduto. E’ ciò che Egli ha accettato di essere e di fare: “Mi metterò davanti a te, mia carissima creatura, non perché sei importante, bella – non occorre che ti abbellisca per venire davanti a me ! -, ma per quella che ti sei ridotta ad essere: perduta”.

Un Dio così vale la pena conoscerlo, incontrarlo, vale la pena lasciarsi coinvolgere dalla sua gioia, la più grande che si possa immaginare, perché non è gioia di un uomo, pur vivissima come quella dell’artista davanti alla sua opera o dell’atleta davanti alla sua vittoria: è la gioia di Dio davanti all’uomo ritrovato.

Il che immediatamente ci obbliga a fermarci sulla parola chiave di questa pagina di Vangelo, che è appunto: “perduto”. Zaccheo è un peccatore pubblico per la mentalità ebraica, ma anche nella nostra realtà, per quel facile e pericoloso peccato che è l’attaccamento alla propria ricchezza. La questione, però, non riguarda il suo particolare peccato, ma il fatto che egli è peccatore, dunque tutti noi che peccatori siamo. Solo che accettiamo la bruciante parola: “perduto”.

Il verbo perdere, di uso così frequente, significa cessare di avere qualche cosa che si possedeva:“Non ho più la borsa”, “Sto perdendo la memoria”, si dice; o peggio: “Sto perdendo la mia dignità”. Perdere ha spessissimo un senso negativo, fino al degrado totale. L’ultimo gradino di questo viaggio verso il basso è allora raggiunto quando l’uomo deve ammettere di aver perso se stesso, e dice: “Lentamente ho perso il senso di me, il mio perché per esistere”. Quanto serve qui ricordare noi siamo creature di Dio, e il senso è l’unica cosa che non possiamo darci da soli! Il nostro senso infatti sta nascosto nel profondo legame che Lui ha voluto avere con noi cominciando a crearci e amandoci tanto. E l’uomo se lo deve spesso ripetere: “Il mio senso è che sono di Dio e che la luce di Dio, non la mia soltanto, m’illumina; che l’amore di Dio, e non soltanto il mio, mi sostiene e mi consola; che il bene di Dio nutre la mia speranza, e così via. Se rinuncio a tutto questo, resto io, perduto, non perché sia stato Dio a rendermi tale, ma perché  mi sono perduto”. Il termine del testo ha proprio tale significato: lì “perduto” non equivale a “smarrito”, ma include il concetto della personale  responsabilità.

Da tutto ciò si deduce che la rovina definitiva dell’uomo non è una di quelle a cui egli può andare incontro nell’esistenza terrena sul piano economico, sociale o della salute: la rovina delle rovine è quella teologica, quando la questione di Dio non è risolta, quando il legame con Lui non c’è più o non c’è ancora. Il perduto, dunque, è colui che non si ritrova o non si ritrova abbastanza, o peggio,  non vuole ritrovarsi in Dio. Ecco perché il Signore prende anche Lui la strada del viaggio verso il basso e viene. Ed è felice quando può dire a qualcuno: “Eri perduto, e ora ti ho trovato.”

Anche noi, per esperienza, sappiamo che cosa significhi ritrovare una persona che avevamo in qualche modo perduta. Come il cuore sussulta quando grida: “L’ho ritrovato! C’è!”. Eppure questo è ancor niente in confronto alla gioia che prova Dio quando ci perdona nel sacramento della Riconciliazione, per fare l’esempio più pertinente, ma anche ogni volta che può riconciliarsi con noi grazie a un’attenzione, uno sguardo, un palpito del cuore. Egli ci ritrova, ed è sempre felice.

L’uomo porta dunque dentro questa rovina teologica, della quale, quanto più i tempi sono  disinvolti e leggeri riguardo a Dio, tanto meno si rende conto. Gli rimane sì il senso di qualcosa che manca, ma non riesce più a risalire all’origine di questo malessere. Molti infatti oggi dicono: “Siamo perduti”; la letteratura del secolo scorso è traboccante di  senso di perdizione, ma non si riferisce più alla rovina teologica. E allora che cosa si può fare? All’uomo del tempo attuale bisogna ripetere con amore: “Se non gestisci più il bene prezioso e irrinunciabile che è la vita, prima di tutto nel tuo radicante e fondativo rapporto con Dio che ti ama, allora sarai costretto al tuo nulla. Cercherai sì di ritrovarti, visto che ti senti disorientato e perduto. Lo tenterai costruendo te stesso su qualche piattaforma terrena, con qualche valore buono, solido, cercando di difenderti dal male, dal delitto, dalla trasgressione, e di costruire un mondo che soddisfi le tue aspettative: ma il senso profondo di non riuscirci mai come vorresti ti creerà angoscia, e il sentimento assillante dell’essere perduto continuerà a pesare sul tuo cuore.

E Dio continua intanto a essere Gesù Cristo che percorre il mondo per trovare quelli a cui dire: “Oh, ti ho incontrato finalmente! Da sempre ti cerco, ma tu non ti voltavi mai a guardarmi! Facevi sempre il sordo; ora però ti sei accorto che senza di me sei perduto”. Questa consapevolezza è essenziale: non basta infatti essere dei perduti per andare da Dio, si possono anche tentare vie d’uscita del tutto diverse, e occorre invece capire qual è la vera radice della propria infelicità. Tra essere perduti e rendersene conto, tra rendersene conto e comprendere che la rovina è teologica, perché abbiamo bisogno solo di Dio, ci sono passi che si compiono, se vogliamo, rispondendo all’incoraggiante grazia di Dio.

Proprio perché è un  Dio che cerca, Egli è anche  un Dio che chiama:Sto alla porta e bussosta scritto; come a dire: “Prima che tu bussi alla mia porta, sono io che busso alla tua, al tuo cuore, alla tua mente. Quando hai dei dubbi, delle inquietudini, quando non sai più a chi rivolgerti, quando stai per dire: – Sono disperato! -, allora tu ti volgi a me, ma io bussavo già alla tua porta. Se vuoi aprimi”.

Questo è lo stato attuale delle cose: pochi sono felici, e lo saranno finché ci riescono; molti sono chiaramente infelici e hanno fatto diventare questa infelicità la loro filosofia, divenendo gelidamente pessimisti. Eppure si rendono conto che questa non dovrebbe essere la condizione umana. Cechov disse: “L’uomo è una corda musicale spezzata”. Semplice il paragone, ma efficace: tu non sei un pezzetto di fil di ferro più o meno contorto che non si sa a che serva, sei, eri una corda musicale da cui si potevano trarre  melodie meravigliose.

E Dio è appunto capace di rifare le cose da capo. Pensiamo ai nostri giovani: ce ne sono in Italia almeno 300.000 completamente allo sbando, non perché siano nati con dei difetti, ma perché si sono perduti. Chi li ricupererà? Questa è una domanda pratica e angosciosa, che tormenta e stimola. Quanto abbiamo bisogno che Gesù venga a dirci: “Sai, eri perduto e ti ho ritrovato”!

A questo punto occorre assumere il discorso anche per noi singolarmente, senza pensare che il perduto sia sempre qualcun altro. Dobbiamo renderci conto che anche noi conosciamo il peccato, e ci conviene il posto di Zaccheo.

Avete notato le parole di Paolo ai Tessalonicesi?  Molto belle, perché egli si rivolge a dei cristiani, li loda in quanto buoni cristiani, ma con tutto ciò, anzi per questo, dice che prega per loro. Perché? “… perché Dio vi renda degni – sempre più degni – della sua chiamata e porti a compimento, con la sua potenza, ogni vostra volontà di bene e l’opera della vostra fede, perché sia glorificato il nome del Signore nostro Gesù”. E’ il movimento della grazia che si rinnova: noi speriamo di essere già salvati dal Signore, ma con questo non possiamo dire che in noi non ci sia più perdizione affatto, o un progresso di bene da compiere o altra chiamata a cui rispondere: “Signore, compi la tua volontà. C’è ancora qualcosa di me di cui tu devi dire: – Ti cerco e voglio trovarti – . Quando il mio egoismo è forte, quando il mio giudizio sugli altri è freddo, distante, quando non sono generoso, non sono puro di cuore, – le mille occasioni in cui non sono ancora cristiano – , è lì che ho bisogno d’incontrarti e di darti la grande gioia di lasciarmi salvare”.

Facciamolo oggi a Gesù questo discorso: “Io mi lascerò salvare ancora, Signore, mi lascerò santificare, e so anche – perché Tu non mi lasci al buio – da dove comincerò. C’è un perdono che ho da dare: è il momento. C’è una riconciliazione che ho da compiere, una compassione  che ho da avere: è il momento. C’è una parola che devo dire, un gesto che non devo più fare. C’è una corruzione nella quale non devo più discendere: è il momento, perché Tu mi aspetti lì e non ti basta tutto il resto. Mi vuoi  salvo  tutto, non in parte. Tu mi vuoi santo, e io so che cosa aspetti”.

Un momento di franchezza amichevole con Gesù, di grande  fiducia nella sua grazia, e d’impegno: “Fidati, Signore! Tu sei venuto quaggiù per cercarmi, non sono venuto io lassù a cercare te. E non voglio deludere questo tuo lungo amore, che durerà quanto la mia vita. Se morirò  cosciente, l’ultima parola che spero potrò dirti sarà questa: – Signore, abbi pietà di me – !”. E che cos’è questa se non l’invocazione di uno che, amato, vezzeggiato, da Dio con mille grazie, tuttavia sa ancora di dover essere salvato? Auguriamocelo, per noi e per i molti del mondo a cui Dio guarda con infinita pazienza.

Affidiamo noi stessi e il mondo a Maria, a cui conviene particolarmente oggi il grande titolo Regina del mondo, ma anche non di meno Madre della misericordia.